«La diritta via. Itinerari giuridici e teologici danteschi». È edito da poco con questo titolo, presso Olschki, il saggio del prof. Valerio Gigliotti, dedicato a Dante e il concetto di «giustizia» nella Commedia. Ne parliamo con l’Autore.
Prof. Gigliotti, il volume si apre con una domanda importante: può la lettura delle opere di Dante Alighieri contribuire a formare il giurista e cittadino del XXI secolo? Quale risposta possiamo darci?
La domanda da lei richiamata, e a cui il saggio prova a fornire una risposta, è meno retorica ed eccentrica di quanto potrebbe sembrare di primo acchito. Le ricerche che, da alcuni anni, dedico al rapporto tra le opere di Dante e il ›sistema’ del diritto medievale in cui egli è vissuto, hanno principalmente l’obiettivo di evidenziare lo stretto rapporto tra la società e i contesti culturali, religiosi e antropologici di cui il diritto rappresenta – come la letteratura – uno specchio particolarmente rivelatore. Dante fu interprete d’eccezione di tutti questi aspetti, nel particolare della sua esperienza di uomo medievale ma con una potenza evocativa universale – come di recente ha ricordato Carlo Ossola (Il poema degli universali, saggio introduttivo all’edizione commentata della Divina Commedia, Parigi-Venezia, Gallimard-Marsilio, 2021) – tale da parlare all’uomo di ieri, di oggi e di sempre. Il diritto nasce come espressione eminentemente sociale, prodotto dall’uomo per l’uomo; emerge dalla ricchezza del reale, della fattualità del vissuto quotidiano e vive e si incarna nella storia – e nelle storie – di uomini e donne, portatori di valori, aspettative, spiritualità e, certo, anche conflittualità. Mentre con la modernità, tuttavia, si affermava il paradigma monista del positivismo giuridico, legicentrico, astratto e sostanzialmente imperativo, per cui il diritto si identifica con il comando della legge positiva emanata dallo Stato e il rapporto dell’uomo con il diritto è posto quindi in termini ›patologici’, di rispetto/violazione della norma e della conseguente sanzione, per il medioevo i presupposti erano ben diversi. Il diritto medievale – quello di cui Dante si fa interprete – è al contrario vocato ad un naturale pluralismo di fonti, espressione normativa della dimensione comunitaria in cui l’individuo è sempre coinvolto, su più livelli: dalla comunità di fede – la Chiesa (il Corpus iuris canonici) – a quella politica universale, l’Impero (il Corpus iuris civilis giustinianeo), all’impegno nelle diverse forme associative locali: la città, il villaggio, la corporazione di appartenenza, il monastero (i cosiddetti iura propria, cioè il diritto locale)… Il giurista medievale doveva farsi interprete di tutte queste differenti normatività e saper adeguare le fonti del diritto alla realtà sociale, unendo quindi una dimensione eminentemente sapienziale con una finalità squisitamente pratica indirizzata al bene comune.
Mi pare, pertanto, che il diritto, nella nostra società contemporanea, presenti nuovamente – sia pure, è evidente, con caratteristiche storiche assai diverse – una forte dimensione plurale ma che, al contempo, assorbendo il modello positivistico, paia aver smarrito, sotto i colpi incessanti del relativismo e dell’individualismo postmoderni, gli strumenti ermeneutici per interpretarla. La lettura delle opere di Dante, quindi – e non solo dei trattati ›politici’, ma anche della Commedia – mi pare possa costituire un indispensabile e inesauribile dispensario sapienziale da cui il giurista contemporaneo, così come il cittadino consapevole e impegnato nell’edificazione del “bene pubblico” può attingere gli strumenti culturali per affiancare alla propria formazione “ipertecnicista” una componente umanistica che, nella tradizione occidentale, ha caratterizzato la formazione di chi è chiamato ad interpretare le dinamiche della società per poi essere efficace nell’analisi delle norme che la regolano.
Per leggere l’articolo integrale: Può la lettura delle opere di Dante Alighieri contribuire a formare il cittadino del XXI secolo? Un’indagine storico-giuridica (catt.ch)